Nella notte tra il 21 ed il 22 agosto del 1968 sulla via Castelletti, che dal cimitero di Signa conduce a Lecore, furono uccisi all’interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca, targata AR 53442. Antonio Lo Bianco e Barbara Locci sono stati al cinema, come due fidanzatini. Tutto lascerebbe presupporre a una bella storia d’amore tra due emigranti in terra toscana: lei di origine sarda, lui muratore venuto dalla Sicilia. La nota che stona l’armonia del quadretto è la presenza di un bambino, Natale, al seguito della donna Antonio e Barbara sono amanti.
Il muratore è padre di tre figli, la donna ha un marito e un figlio di sei anni già avvezzo alla falsità del pudore. In paese la chiamano l’Ape regina per la sua smania di accoppiarsi con diversi fuchi senza tener in gran conto l’onore del marito, Stefano Mele, divenuto a tutti gli effetti il succube cornuto. I due, con il piccolo, dopo essere stati al cinema si allontanano con la Giulietta del muratore. Fanno un giro lungo in modo che il bambino possa addormentarsi, si fermano in via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità. Lo Bianco si sposta sul lato del passeggero e reclina lo schienale, La Locci tira sulle cosce il vestito. Sono presi dalla foga ma, stando alla ricostruzione dei fatti, non riescono ad avere un rapporto completo poiché, mentre sono in quella posizione, sono raggiunti da otto colpi di una calibro 22, quattro a lui e quattro a lei. Il fanciullo viene risparmiato, anzi è indirizzato verso il casolare della famiglia De Felice, a due chilometri dal luogo delitto, dove giungerà intorno alle due per chiedere aiuto in evidente stato confusionale (gli inquirenti riterranno che la frase riferita gli è stata imboccata dall’assassino): “Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina”. Dopo averlo soccorso, il padrone di casa chiede a Natalino cosa sia accaduto ma il piccolo riferisce solo “strani” particolari: “Era buio, tutte le piante si muovevano, non c’era nessuno. Avevo tanta paura“. I Carabinieri, chiamati dal De Felice si mettono alla ricerca dell’auto portandosi dietro il piccolo Mele. Verso le tre l’auto è ritrovata grazie all’indicatore di direzione lampeggiante. La scena è cambiata: Barbara è seduta compostamente, sul sedile del guidatore; Antonio è rimasto disteso sul lato opposto. Inoltre, vista la situazione di intimità e la necessità di non essere individuati, subito si comprende che il lampeggiatore è stato acceso dal killer per rendere più agevole il ritrovamento del veicolo. Gli inquirenti immediatamente chiamano in causa, tra i possibili esecutori, il marito tradito. Stefano si difende alimentando sospetti intorno agli amanti “traditi” della moglie. Messo sotto pressione confessa la sua colpevolezza, ma tira in ballo Salvatore Vinci (gli avrebbe fornito l’arma e accompagnato sul luogo dove era l’auto), poi ritratta. Si proclama di nuovo innocente e accusa il fratello di Salvatore, Francesco, quale esecutore materiale, in seguito nega e accusa Carmelo Cutrona. Infine, quando il figlio, dopo l’ennesimo interrogatorio, dice di essere stato condotto in spalla dal padre a casa del De Felice, conferma la versione di Natalino. Nel marzo del 1970 Stefano Mele è condannato dal tribunale di Perugia in via definitiva alla pena di 14 anni di reclusione. La pena è piuttosto mite perché gli si riconosce una parziale incapacità di intendere e di volere. Gli vengono, in più, inflitti altri due anni per calunnia contro i fratelli Vinci. Il processo si conclude tra mille dubbi probatori: l’arma del delitto non è stata mai ritrovata e sebbene Stefano conosca alcuni particolari che solo l’assassino può sapere, nella sua ammissione di colpevolezza rimangono insormontabili incongruenze. Nessuno, in quel momento, lancia l’allarme del serial killer anche perché la condanna del Mele arriva prima del secondo omicidio (1974) relazionato con la scia di sangue tracciata dal mostro di Firenze. Solo nel 1982, dopo il quinto omicidio (le vittime sono Paolo Mainardi e Antonella Migliorini), il maresciallo Fiori, 15 anni prima in servizio a Signa, ricorderà del delitto avvenuto nell’agosto del 1968.
La riapertura del fascicolo, contenente i bossoli ritrovati, permetterà di scoprire che l’arma utilizzata è la stessa. A questo punto gli inquirenti cominciano a pensare ai delitti come una catena maniacale cominciata proprio nell’agosto del Sessantotto.