La memoria achemenide oltre le fonti greco-romane

ANTICO ORIENTE.  Lloyd Llewellin-Jones (Einaudi) racconta le vicende dell’impero dei Grandi Re con un piglio avvincente e ironico: ma è davvero possibile una «versione persiana» della storia della Persia? «Sono l’Impero alla fine della decadenza / che guarda passare i grandi Barbari bianchi / componendo acrostici indolenti». Così scriveva Paul Verlaine all’inizio del suo celebre sonetto Langueur (1883). Il poeta individuava la causa della fine dell’impero romano nel concetto di decadenza.

Ormai irrimediabilmente corrotti dal lusso, i Romani persero i buoni costumi delle origini diventando facile preda delle orde barbariche. Eppure, se volgiamo il nostro sguardo a un passato ancora più lontano, scopriremo che esiste un impero altrettanto grande in cui il concetto stesso di decadenza fu considerato per secoli il suo marchio distintivo: l’impero fondato da Ciro II il Grande di Persia (r. 559-530 a.C.). È grazie agli studi dello storico francese Pierre Briant, confluiti nella monumentale sintesi Histoire de l’empire perse. De Cyrus à Alexandre (Fayard 1996), che l’impero persiano è stato sottratto a quella narrazione negativa tramandata dagli autori classici e che ha messo radici profonde nell’immaginario collettivo europeo. Un esempio lampante di come questo stereotipo sia ancora oggi molto diffuso è fornito dal graphic novel 300, scritto e disegnato da Frank Miller (1998), e dalla sua omonima versione cinematografica diretta da Zack Snyder nel 2007. La storia è nota: tutto si concentra sul leggendario scontro avvenuto nel 480 a.C. al passo delle Termopili fra i trecento spartani guidati da Leonida e lo sconfinato esercito di Serse, il re di Persia deciso a sottomettere la Grecia. Lettori e spettatori ricorderanno come tutti i Persiani, dal re al soldato semplice, siano rappresentati secondo il cliché della crudeltà, della ricchezza smisurata, della decadenza morale e fisica che li trasforma in esseri di grottesca mostruosità. Gli studi specialistici hanno ormai mutato questa visione contribuendo al progresso delle nostre conoscenze sul mondo dei Persiani. Tuttavia mancava un’opera che avvicinasse il grande pubblico a questa civiltà. Il guanto di sfida è stato raccolto da Lloyd Llewellyn-Jones nel 2022 con una monografia ora disponibile in italiano intitolata I persiani L’età dei Grandi Re (Einaudi «La Biblioteca», trad. di Valerio Pietrangelo, pp. XII-452, euro 35,00). Per quanto l’argomento possa sembrare esotico per un pubblico più abituato al mondo classico, l’autore è riuscito a costruire una narrazione avvincente e venata di ironia che ci conduce con leggerezza attraverso un numero di pagine che in altri casi sarebbe risultato scoraggiante. Llewellyn-Jones ha organizzato la trattazione in tre parti: la prima racconta l’origine dei Persiani e la formazione dell’impero da parte di Ciro il Grande proseguendo fino al regno di Dario I (522-486 a.C.). Dario costituisce un vero punto di svolta per la storia persiana, dal momento che riorganizzerà profondamente la struttura dell’impero e darà inizio a una nuova dinastia, mascherando abilmente il suo colpo di stato attraverso la storia dell’eliminazione di un finto usurpatore, il mago Gaumata. Inoltre, al fine di crearsi un legame di parentela con la dinastia di Ciro, Dario inventa un antenato comune: Achemene. A partire da qui, la dinastia achemenide regnerà sull’impero persiano fino alla fine. A questo punto, però, l’autore decide di interrompere il flusso narrativo per aprire un’ampia sezione dedicata all’organizzazione amministrativa dell’impero, alla struttura della corte e alla religione. Questa parte avrebbe forse avuto più efficacia a conclusione della sezione narrativa senza costringere il lettore a riprendere le fila del discorso dopo un centinaio di pagine. La terza parte affronta le vicende dal regno di Serse a Dario III, ultimo sovrano con cui l’impero persiano cadrà sotto i colpi di Alessandro Magno. Il libro si chiude con un ‘Epilogo’ in cui l’autore fa un’interessante rassegna sull’impronta lasciata dagli Achemenidi nella successiva storia della Persia, fino all’uso ideologico che se ne è fatto nell’Iran contemporaneo. Il libro di Llewellyn-Jones è un’appassionata difesa dell’impero achemenide e, oseremmo dire, una dichiarazione d’amore nei confronti di una cultura tanto antica quanto sofisticata. Le critiche nei confronti delle storiografie greca e romana come responsabili principali dell’immagine negativa della Persia sono legittime, ed è un bene che tale consapevolezza possa essere comunicata al grande pubblico. Operazioni come questa rappresentano una boccata di ossigeno nel panorama editoriale, perché ci invitano a mettere in discussione la nostra convinzione – più indotta che reale – di essere figli di Pitagora e di Cesare. Ciò è tanto più necessario in un periodo in cui la ricerca e l’insegnamento della storia si stanno progressivamente orientando verso la World History. L’autore dichiara più volte di voler ricostruire la Versione Persiana (sic) della storia sfruttando soprattutto le fonti orientali, ma qui sorge un problema: la documentazione di età achemenide è molto limitata per quanto riguarda la storia evenemenziale, mentre ci fornisce molte informazioni sull’amministrazione. D’altra parte, la cultura persiana fu prevalentemente orale e non conobbe una forma di storiografia comparabile a quella che si sviluppò nel mondo greco. La memoria storica achemenide sopravvisse nei secoli, ma in forma trasfigurata nel ricco patrimonio epico tramandato da poeti itineranti. Così, malgrado le sue dichiarazioni di intenti, l’autore si trova spesso a dipendere dalle fonti greco-romane per la sua narrazione, perché senza di esse una storia persiana non sarebbe possibile. Ma dopo tutto non è compito dello storico ricostruire il passato vagliando criticamente di volta in volta tutte le fonti disponibili?

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