Non è cancellando le norme su pesticidi e salvaguardia della biodiversità che si salvano gli agricoltori. Nelle ultime settimane, la cosiddetta “protesta dei trattori” ha ottenuto grande visibilità da parte della carta stampata e di molti altri media, conquistando persino l’attenzione dei programmi di intrattenimento televisivo.
Con pochissime eccezioni, l’intero sistema informativo ha dispensato opinioni e valutazioni commentando con toni favorevoli tutte le iniziative che hanno caratterizzato la protesta degli agricoltori senza mai proporre un’analisi approfondita e obiettiva delle cause remote che hanno portato all’attuale situazione. A tutt’oggi, su questi eventi regna una grande confusione ampiamente sostenuta dalla disinformazione, a cui si sovrappongono la malafede e le gravi carenze di competenza di molti esponenti della classe politica nazionale e transnazionale che nella protesta degli agricoltori hanno già intravisto soltanto un’utile opportunità di speculazione elettorale in vista delle prossime elezioni europee. Tutto ciò non permette di percepire che un ruolo centrale della protesta viene giocato da svariate associazioni di categoria, di costituzione più o meno recente, le quali, anziché contribuire a un vero rinnovamento ecologico e sociale dell’agricoltura, come da anni viene raccomandato da autorevoli circuiti internazionali della comunità scientifica -si pensi a ciò che in questa materia viene continuamente pubblicato da riviste come Lancet, Nature, Science, ecc. -si preoccupano unicamente di mantenere le loro rendite di posizione nel mondo politico. Per capire ciò che in questi giorni sta accadendo a Roma, a Bruxelles e in altre città europee, bisogna mettere in moto la memoria e ripartire con lucidità da ciò che è accaduto negli ultimi decenni. In pratica, si deve avere il coraggio di riconoscere che la protesta dei trattori è soltanto l’ennesima conferma della fragilità e dell’insostenibilità di un sistema agroalimentare fondato su regole fuori dalla realtà e dal tempo: vale a dire, regole rigidamente fondate su un modello produttivo (industriale) che oggi è chiaramente alle corde. In secondo luogo, è necessario prendere atto del fatto che la permanenza in vita di un simile modello produttivo dipende unicamente dai giganteschi input chimici, idrici ed energetici che nel lungo periodo hanno determinato il deterioramento di risorse naturali di cui la stessa produzione agricola ha impellente bisogno. Promuovere ancora oggi un simile sistema produttivo, che distrugge i suoli, la biodiversità e il paesaggio rurale, alimentando al tempo stesso il cambiamento climatico e i fenomeni siccitosi, significa promuovere l’estinzione dell’agricoltura, e ovviamente non solo dell’agricoltura. Ed è grazie alle pressioni esercitate da potentissime lobby industriali che presidiano costantemente i palazzi delle Istituzioni europee che questo modello produttivo continua a sopravvivere, malgrado gli astronomici costi finanziari che esso comporta per le aziende agricole, per il territorio e per i cittadini europei. Del resto, il fatto che i giganti dell’agrochimica, delle sementi e dell’agro biotech intrattengano rapporti stretti e non sempre trasparenti con molti rappresentanti delle istituzioni europee, condizionando gli indirizzi delle politiche europee più importanti, come l’agricoltura, la sanità e l’ambiente, non è certo una novità. Il caso del rinnovo dell’autorizzazione del glifosato da parte della Commissione Europea è probabilmente soltanto la punta di un grande iceberg.ciò premesso, non si deve dimenticare che tradizionalmente la politica agricola comunitaria (PAC) assorbe oltre il 30% del budget della UE e che le risorse totali della PAC destinate all’Italia nel periodo 2014- 2020 si aggiravano a più di 50 miliardi di Euro, destinati a oltre 1 milione di aziende agricole. Ebbene, tali risorse sono state impiegate secondo logiche insensate, per non dire deliranti, al fine esclusivo di tutelare i profitti privati delle grandi aziende agricole senza minimamente badare alla protezione dei beni pubblici, come l’ambiente, la biodiversità, il clima e, non ultima, la salute pubblica. Per concludere, si può ben dire che in questa protesta, che in realtà riguarda soltanto una parte degli agricoltori europei le cui rivendicazioni sono spesso diverse da paese a paese, è difficile distinguere chi ha torto e chi ha ragione. Se da un lato sono assolutamente comprensibili le preoccupazioni degli agricoltori/allevatori a basso reddito, che vengono strangolati dai contratti e dai prezzi risibili imposti dalla grande distribuzione (in media un litro di latte viene pagato meno di un terzo del prezzo a cui viene venduto al consumo), dall’altro va detto che l’idea di proporre la soppressione del pacchetto di misure europee (Green Deal) per ridurre l’uso di pesticidi e, più in generale, per attenuare l’impatto dell’agricoltura su biodiversità, suoli, qualità dell’aria e dell’acqua, e clima, costituisce un vero insulto alla razionalità”, oltre che uno schiaffo a tutte le piccole-medie aziende agricole che dalla UE non hanno mai preso sussidi (o ne hanno presi pochissimi) e che da anni hanno modificato radicalmente il modo di coltivare, facendo attenzione alla protezione delle risorse naturali e alla diminuzione dei consumi energetici e degli impatti sul clima. Infine, non si può non rilevare che nella protesta dei trattori non è stata enfatizzata alcuna iniziativa che tenga conto delle opinioni dei consumatori europei che, come di consueto, non hanno voce in capitolo e devono ingoiare ogni nefandezza politica ed economica che si consuma a loro insaputa e a loro danno.