Investimenti finanziari. La folle mania di voler “battere il mercato” – Parte 1

Con questo articolo desidero dare un taglio più pratico al tema dell’”ipotesi dei mercati efficienti” (EMH) che abbiamo già affrontato sia nel precedente articolo dal titolo “Perché devi capire se i mercati finanziari sono “efficienti”?” che nella seconda puntata del “Salotto Finanziario di Mr. Rip” insieme ad altri colleghi e divulgatori di finanza personale

Nella chiacchierata che abbiamo fatto su YouTube, tutti i colleghi concordavano sul fatto che è inutile e dannoso cercare di “battere il mercato”. Uno dei frutti più preziosi della teoria sui mercati efficienti è l’introduzione dei fondi indicizzati, oggi più diffusi nella forma di ETF. Non c’è alcun dubbio, infatti, sul fatto che per un comune investitore sia molto più vantaggioso diversificare i propri investimenti attraverso degli ETF rispetto a sottoscrivere fondi a gestione attiva. Questi ultimi, infatti, si pongono l’obiettivo di generare un rendimento, rapportato al rischio (inteso come oscillazione del valore del fondo), superiore a quello del mercato nel quale investono. Sappiamo, però, proprio da tutti gli studi che sono stati fatti a seguito della teoria sui mercati efficienti, che nella media – cioè statisticamente – questa attività è impossibile al netto di tutti i costi che comporta. In questo senso si può affermare che i mercati finanziari sono “statisticamente” efficienti. Alcuni partecipanti al salotto, però, fra i quali il sottoscritto, sostenevano la tesi che i mercati non sono efficienti in senso valutativo. L’ipotesi dei mercati efficienti si limita a dire che i prezzi sarebbero mossi dalle nuove informazioni che escono di volta in volta. Non si tratta di una descrizione accurata di ciò che realmente accade nella realtà. Una teoria maggiormente rappresentativa di ciò che realmente accade dovrebbe essere molto più articolata e tenere in considerazione un complesso intreccio di fenomeni che si possono distinguere in due categorie:

– aspetti più tecnici/materiali che riguardano la struttura dei mercati finanziari, le diverse tipologie di operatori, i molti ordini di compravendita automatici che scattano per diverse ragioni, ecc.
– aspetti più psicologici che riguardano il variare della narrativa prevalente alla luce della quale gli operatori tendono a interpretare il flusso di nuove informazioni. La cosa che rende il tutto incredibilmente complesso è il fatto che le due tipologie di fenomeni si intrecciano, influenzandosi a vicenda. Rimando chi vuole approfondire il tema a questi due articoli: “Psicologia dei mercati finanziari: intelligenza collettiva o follia della massa?” e “La relazione tra fondamentali e prezzi di borsa”. Per gli scopi di questo articolo è sufficiente avere ben chiaro quanto segue: nei mercati finanziari, di norma, i prezzi si muovono molto più eccessivamente di quanto sarebbe giustificato da una razionale valutazione delle informazioni. Il “valore intrinseco” dei titoli è impossibile da stabilire con precisione poiché i modi per stabilirlo sono vari e tutti includono ipotesi discutibili. Tuttavia, si può affermare con ragionevole certezza che per la maggior parte del tempo i prezzi non riflettono accuratamente il “valore intrinseco”, comunque lo si voglia determinare. I prezzi tendono a muoversi seguendo cicli di sopra e sottovalutazione rispetto al valore sottostante. Il fatto che esistano i cicli, però, non significa che i prezzi siano prevedibili. I cicli, infatti, variano sia in durata che in ampiezza. Mentre il ciclo è in corso, non è mai possibile affermare con precisione in quale punto del ciclo ci troviamo. Tantomeno è possibile predire quando il ciclo invertirà. Inoltre, non è possibile sapere se un disallineamento fra prezzo e valore venga corretto per prevalente effetto del variare del prezzo rispetto al valore o viceversa. Ciò nonostante, è possibile osservare che in un determinato momento ci sia una divergenza più o meno ampia rispetto al valore intrinseco. Come vedremo nell’ultima parte di questo articolo (e nel prossimo), osservare queste divergenze può essere sfruttato in modo molto proficuo per alcuni investitori, ma non con l’obiettivo di “battere il mercato”.

Battere il mercato È sempre utile definire bene quello di cui stiamo parlando. Definiamo quindi cosa intendiamo per “battere il mercato”. Se facciamo il confronto fra la gestione attiva e un indice di mercato, ad esempio lo S&P500, abbiamo solo due ipotesi. Possiamo fare il confronto fra uno specifico gestore e il mercato di riferimento oppure possiamo fare il confronto fra la media dei gestori e il mercato. Nel primo caso, non ha alcun senso utilizzare i dati storici perché sarebbe arbitrario selezionare un certo periodo di tempo (un anno? cinque? dieci?), anche perché all’interno di quel periodo, scelto ex-post, ci saranno state delle fasi nelle quali il gestore avrà battuto il mercato e altre nelle quali non l’ha fatto. Come è arcinoto, poi, i risultati passati non sono indicativi dei risultati futuri. L’unica cosa sensata da fare sarebbe fissare prima un certo periodo di tempo e verificare se, nel futuro, il gestore attivo sarà in grado di battere il mercato. Come vedremo, ci sono validissime ragioni per ritenere statisticamente molto improbabile che riesca a farlo, specialmente ripetendo l’esperimento più volte. Se invece parliamo del confronto con la media dei gestori attivi, allora le cose cambiano. Si può decidere quale periodo di tempo selezionare, ma – se questo è ragionevolmente lungo – troveremo sempre che la media dei gestori attivi farà peggio della media del mercato. Questa è una necessità statistica. C’è un motivo molto semplice spiegato dal Premio Nobel William Sharpe in un vecchio paper del 1991 intitolato “The Arithmetic of Active Management” nel quale Sharpe utilizza le quattro operazioni matematiche di base (somma, sottrazione, moltiplicazione e divisione) per spiegare perché in media la gestione attiva deve fare peggio della gestione passiva. Il concetto è molto semplice: il mercato, nel suo complesso, può essere composto solo da due tipi di investitori: chi fa gestione passiva e chi fa gestione attiva. I primi, per definizione, avranno un risultato quasi identico alla media del mercato. L’altra metà, quindi, in media, DEVE fare esattamente anch’essa
come la media del mercato. I gestori attivi, però, per svolgere la loro attività subiscono costi molto superiori ai gestori passivi. È matematico, quindi, che i gestori attivi, in media, al netto dei costi, facciano peggio dell’indice. Non potrebbe essere diversamente. Ovviamente ci sarà sempre qualcuno che farà molto meglio della media e qualcuno che farà molto peggio e questo su qualsiasi orizzonte temporale. Anche su orizzonti temporali di 20 o 30 anni si dovranno trovare alcuni gestori che avranno fatto molto meglio del mercato e altri che avranno fatto molto peggio. Il punto è che non possiamo sapere prima quali saranno i gestori che in futuro faranno meglio. In sintesi, confrontarsi con la media del mercato significa necessariamente stabilire un arco temporale entro il quale fare il confronto. Tuttavia, per il singolo investitore non ha alcun senso cercare di ottimizzare il rendimento dell’intero portafoglio all’interno di un qualsiasi arco temporale definito. I mercati sono un fenomeno dinamico e continuo. Al singolo investitore non può e non deve interessare superare una certa “asticella” (la media del mercato) in uno specifico orizzonte temporale. Il suo obiettivo è massimizzare ciò che il mercato può offrirgli nell’intero arco della sua vita e per tutti gli orizzonti temporali collegati ad esigenze di spesa che a lui interessano. Il confronto tra il rendimento del suo portafoglio e la media del mercato in un certo arco temporale è sicuramente un’informazione utile, ma non deve essere l’unica informazione con la quale valutare le scelte passate o impostare le strategie future. Ciò sarebbe inutilmente e
pesantemente limitante.

L’efficienza statistica non dimostra l’efficienza valutativa Il fatto che la media degli investitori che tentano di battere il mercato non ci riesca, non dimostra in alcun modo che i prezzi siano corretti dal punto di vista valutativo. Dimostra invece che – mediamente – i costi che si sostengono per tentare di battere il mercato, non possono generare sistematicamente un extra rendimento, aggiustato per il rischio, rispetto al rendimento medio del mercato quando si fissa uno specifico orizzonte temporale. L’errore che sta alla base della presunta dimostrazione dell’ipotesi dei mercati efficienti è il sillogismo in base al quale, poiché i gestori, in media, non riescono a generare extra rendimenti rispetto alla media del mercato, ne consegue che i prezzi devono essere corretti, nel senso che rappresentano la migliore approssimazione possibile del valore intrinseco del titolo. Questo sillogismo è un palese errore di logica di base. I prezzi possono benissimo essere molto distanti dal loro valore intrinseco sebbene non si possa sfruttare questa informazione per battere sistematicamente il rendimento medio del mercato in un orizzonte temporale predefinito.

Le due cose non sono logicamente collegate! Ne consegue che cercare di applicare strategie per vendere o comprare titoli nel tentativo di anticipare i movimenti futuri e conseguire un extra-rendimento rispetto alla media del mercato va considerato – statisticamente – uno spreco di tempo e denaro. Quantomeno, le probabilità non giocano a favore di strategie del genere. Questo non significa, però, che sia insensato qualsiasi tentativo di sfruttare le inefficienze valutative del mercato. Sembra che questo concetto sia difficile da comprendere anche per i professionisti del settore. Sembra che ogni scelta d’investimento debba essere confrontata con la media del mercato in un certo arco temporale (in genere un anno). Questa mentalità porta a un’assurda riduzione delle possibilità di scelta dell’investitore.
In realtà, se si crede che i prezzi dei mercati non siano efficienti dal punto di vista valutativo e si abbandona la folle mania di volersi confrontare con la media del mercato, in uno specifico orizzonte temporale, ci sono diversi modi per tentare di trarre vantaggi da queste inefficienze. In questo articolo vedremo due casi che possono essere adatti all’investitore comune. In un prossimo articolo, ci occuperemo invece di alcuni modi che sono adatti solo ad investitori più facoltosi e/o molto più appassionati alla finanza.

Casi di euforia irrazionale generalizzata dei mercati Può capitare, molto raramente (cioè una volta ogni molti anni, talvolta anche decenni), che i mercati azionari, nel loro complesso, assumano valutazioni superiori alla loro media storica di tre deviazioni standard o più. Non ci stiamo riferendo a casi di “normale” sopravvalutazione. Valutazioni superiori alla media storica di una o due deviazioni standard avvengono abbastanza frequentemente e vengono corrette attraverso le normali oscillazioni dei prezzi. Al contrario, quando le valutazioni eccedono la media storica di tre deviazioni standard, possono innescarsi discese di prezzo assolutamente eccezionali (nell’ordine del 50%) che non possono essere recuperate, in un arco di tempo ragionevole per un singolo investitore, attraverso i normali movimenti del mercato. Quando accadono discese del genere, se l’investitore non fa niente, può subire perdite, in termini reali, che non sono recuperabili per svariati anni, anche un decennio. In questi rarissimi casi, anche se possiamo osservare l’eccesso di sopravvalutazione, non possiamo in nessun modo utilizzare questa informazione per tentare di battere il mercato in uno specifico orizzonte temporale (in genere un anno). L’efficienza “statistica” del mercato rimane tale. Non possiamo sapere quando le valutazioni inizieranno a scendere verso la media storica e non possiamo neppure sapere se queste valutazioni scenderanno per effetto dei prezzi che crolleranno o degli utili che cresceranno (o in quale combinazione di questi elementi). Tutto quello che sappiamo (se contempliamo l’esistenza dei cicli di mercato) è che il rischio di una violenta e prolungata discesa dei prezzi, in quelle fasi, è molto superiore rispetto a quando le valutazioni non sono così elevate.ì Se l’obiettivo principale dell’investitore è quello di confrontarci con il rendimento della media del mercato entro un certo arco temporale, tipicamente un anno, come accade per i gestori dei fondi comuni, sarebbe un azzardo ingiustificato ridurre la componente azionaria anche in queste rarissime fasi dei mercati. Ma se l’obiettivo dell’investitore è quello di massimizzare ciò che i mercati finanziari possono offrire all’investitore nell’intero arco della propria vita (cioè un singolo caso, non una media statistica), allora le cose cambiano parecchio. Questo è un caso estremamente significativo nel quale abbracciare una filosofia d’investimento completamente aderente all’ipotesi dei mercati efficienti oppure una che contempli l’esistenza dei cicli di mercato può avere ripercussioni pratiche dirimenti. Il fatto che i crolli generalizzati dei mercati azionari (nell’ordine del 50%) esistano è un fatto indiscutibile. Qui desidero esprimere una posizione molto forte, che potrebbe essere contestata da alcuni colleghi: qualsiasi progetto d’investimento che non tenga in considerazione questa realtà deve essere considerato, a mio modesto avviso, tecnicamente sbagliato. Punto. Possiamo, però, tenere conto di questa realtà in modo radicalmente diverso a seconda della filosofia d’investimento che ispira il proprio progetto d’investimento. Se si aderisce completamente all’ipotesi dei mercati efficienti, ne consegue che nessuna combinazione di informazioni (compresa quella che le valutazioni dell’azionario sono tre deviazioni standard superiori alla media storica, combinata magari con informazioni macroeconomiche e/o di trend di mercato) ci dovrebbe far prendere la decisione di ridurre l’azionario. L’unica cosa saggia da fare, seguendo questa filosofia, è proporzionare la quota di azionario che si desidera mantenere in portafoglio in modo tale che anche qualora si verifichi un crollo nell’ordine del 50%, questo crollo non pregiudichi i propri obiettivi di vita collegati alle esigenze finanziarie e non implichi delle perdite irrecuperabili nell’orizzonte temporale del progetto d’investimento. Questo significa una quantità di azionario nell’ordine del 30-40%, se l’orizzonte temporale è inferiore ai 20 anni. Sicuramente non maggioritario, a meno che non si stia parlando dei soldi destinati alla
pensione di un trentenne. Viceversa, se si aderisce all’ipotesi che i mercati attraversano cicli di sopra e sottovalutazione, può diventare ragionevole avere una quantità di azioni in portafoglio anche maggioritaria, nell’ordine del 60% o superiore, se questa è aderente agli obiettivi d’investimento ed alla tolleranza al rischio dell’investitore. Questa percentuale più elevata rispetto ad un portafoglio con pari orizzonte temporale, ma ispirato dalla filosofia d’investimento aderente all’ipotesi dei mercati efficienti, può essere mantenuta per tutto il tempo nel quale i mercati sono sottovalutati o “normalmente” sopravvalutati, ovvero oltre il 90% del tempo. Però, nei rari casi nei quali la sopravvalutazione raggiunge dei livelli eccessivi dovrebbe essere ridotta ad un livello che renda il progetto sostenibile anche in presenza di un crollo nell’ordine del 50% e dovrebbe ripristinare la quota maggioritaria qualora il crollo si realizzasse effettivamente. I “puristi” dei mercati efficienti probabilmente direbbero che questo è voler fare “market timing” e che è statisticamente provato che sarebbe sbagliato. Non sono affezionato alle definizioni, poiché, parafrasando il grande statistico inglese George Box che si riferiva ai modelli: tutte le definizioni sono sbagliate, anche se qualcuna è utile. Personalmente ritengo che sia corretto chiamare “market timing” il tentativo di entrare ed uscire dal mercato con il preciso scopo di fare meglio della media del mercato in un definito orizzonte temporale. Nella logica che sto descrivendo, la riduzione dell’azionario non è finalizzata a “battere il mercato”. L’investitore che aderisce a questa logica ha abbandonato l’idea del confronto con il mercato. Riduce l’azionario in quello specifico contesto, non per anticipare il movimento dei prezzi, ma per non correre un rischio che in quella fase – secondo la sua filosofia d’investimento che contempla i cicli di mercato – è diventato molto più concreto. L’obiettivo di fondo è mantenere una quota di azioni più alta possibile per il maggior tempo possibile. È ovvio che chi sceglie questo secondo approccio per difendersi dai possibili grandi crolli dei mercati lo faccia perché ritiene di trarre un maggior guadagno, ma un maggior guadagno non significa “battere il
mercato”! Il maggior guadagno non è rispetto alla media del mercato, ma rispetto alle alternative ragionevoli per lui! È ragionevole attendersi che un portafoglio che abbia il 60% di azionario per circa il 90% del tempo ed un 20% di azioni per circa il 10% del tempo, abbia un rendimento medio superiore ad un portafoglio che ha il 40% di azioni per il 100% del tempo. Le due cose però non sono immediatamente confrontabili nei termini classici del confronto con la media del mercato. In sintesi, introdurre il concetto dei cicli di mercato, ha ampliato il punto di vista introducendo più opzioni possibili fra le quali scegliere.

Il problema del PIC e del PAC Il famoso e simpaticissimo youtuber Paolo Coletti ha realizzato diversi video sul confronto tra investire una certa somma di denaro immediatamente oppure in modo dilazionato nel tempo seguendo determinate strategie. Si tratta di un tema molto comune nel mondo degli investimenti. Paolo, in questi video, ha più volte ripetuto che intuitivamente lui propenderebbe per l’investimento dilazionato nel tempo, ma i numeri sono impietosi. La statistica dice chiaramente che il momento migliore per investire è quando abbiamo i soldi. Investire tutto subito è statisticamente vincente in modo schiacciante, qualunque sia la strategia adottata. Il problema di fondo è che i calcoli che Paolo fa – con una grande abilità sia tecnica che comunicativa – sono sensati solo ed esclusivamente se si aderisce completamente all’ipotesi dei mercati efficienti, ovvero se si ritiene che i prezzi seguano un movimento casuale (cosiddetta ipotesi della random walk). Insieme a Paolo discuteremo anche di questi temi giovedì prossimo, 9 Gennaio 2025 alle 17 in una live che ho annunciato in questo post su LinkedIn nel quale metterò il link appena disponibile (probabilmente domani). Se si comprende che i mercati attraverso cicli si comprende anche che non ha alcun senso fare la media tra le fasi nelle quali i prezzi erano fortemente sopravvalutati, con le fasi nelle quali i prezzi erano fortemente sottovalutati. Così come è statisticamente necessario che i gestori che tentano di battere il mercato, in media, non ci possono riuscire (a causa dei costi), così è statisticamente necessario che investire di meno, mediamente, produca un rendimento inferiore. Si tratta della scoperta dell’acqua calda. Ancora una volta, se l’obiettivo di un investimento dilazionato nel tempo fosse quello di “battere il mercato” non avrebbe alcun senso, ma ci sono obiettivi ben più importanti per il singolo investitore per il quale ha molto senso prendere in considerazione un investimento dilazionato nel tempo, specialmente con un approccio dinamico. Nel mondo reale, il singolo investitore non deve solo scegliere se investire tutto subito (PIC) o investire in modo dilazionato (PAC), ma deve scegliere anche quanto investire nelle azioni rispetto alle obbligazioni. Ipotizziamo che un investitore abbia ricevuto 300 mila euro dalla vendita di una casa e desideri investire nei mercati azionari. Il confronto tra PIC e PAC è una questione importante, ma successiva rispetto alla domanda: quanto azionario mettere in portafoglio? Se la filosofia d’investimento dell’investitore è perfettamente aderente all’ipotesi dei mercati efficienti, l’unica opzione coerente è sempre la stessa che abbiamo visto anche nel paragrafo precedente. Scegliere la quota di azioni in base all’orizzonte temporale e propensione al rischio (inteso come oscillazione dei prezzi) ed investire tutto in un’unica soluzione. Punto. Non c’è altro da fare. Come abbiamo ricordato precedentemente, in questa ipotesi, la quota di azioni difficilmente potrebbe
andare sopra il 40%, a meno di non avere orizzonti temporali trentennali o accettare passivamente (ed in mondo insensato) il rischio che un crollo dell’azionario nell’ordine del 50% distrugga il rendimento del portafoglio per tutto l’orizzonte temporale prescelto. Nel caso in cui la filosofia d’investimento contempli l’esistenza dei cicli, invece, si può osservare il grado di sopra o sotto valutazione dei prezzi e – in alcuni casi – potrebbe risultare conveniente usare un PAC. Naturalmente, non con l’idea di “battere il mercato”, ma allo scopo di aumentare la quota di azioni ritenuta compatibile con il proprio progetto d’investimento. Facciamo un esempio pratico. Nel caso in cui ci trovassimo in un periodo nel quale il mercato fosse sottovalutato o solo lievemente sopravvalutato, si potrebbe decidere di escludere del tutto il PAC ed investire fin da subito in una quota più elevata di azionario, come abbiamo descritto nel paragrafo precedente, avendo il progetto di uscire parzialmente nel caso di eccessiva sopravvalutazione, definita come tre deviazioni standard sopra la media storica. Nel caso in cui ci trovassimo, invece, in una fase di forte sopravvalutazione, diciamo oltre due deviazioni standard, ma sotto le tre deviazioni, si potrebbe pensare di investire subito una parte ed avviare un PAC per arrivare, a fine progetto, alla quota massima di azioni adatta a quell’investitore. In quel contesto, senza lo strumento del PAC, per quello specifico investitore, investire tutta la cifra subito nelle azioni non lo renderebbe psicologicamente tranquillo. L’investimento dilazionato nel tempo, inoltre, ha uno scopo fondamentale che prescinde del tutto dal “battere il mercato” ed è quello di abituare gradualmente l’investitore principiante alle oscillazioni di mercato. Il PAC è lo strumento migliore per elevare la propensione al rischio di un investitore. È chiaro che considerare la fase del ciclo in cui ci troviamo gioca anche un ruolo favorevole sul piano della narrativa e quindi sugli aspetti psicologici dell’investitore. L’alternativa, quindi, non è tra investire tutto subito o investire attraverso il PAC, ma tra investire attraverso il PAC o non investire quella determinata quota in azioni. Ancora una volta, considerare l’esistenza dei cicli di mercato ha introdotto una nuova dimensione che dischiude più opportunità di scelta. Non si tratta di voler “battere il mercato”. Se proprio vogliamo porla in termini di “battere qualcuno”, si tratta di battere sé stessi, ovvero aumentare le proprie capacità, pratiche e psicologiche, di ottenere il massimo possibile (considerati i propri vincoli) dal mercato.

Conclusioni In questa prima parte abbiamo affrontato due casi molto comuni di decisioni che riguardano quasi tutti gli investitori ed abbiamo visto come il fatto di contemplare l’esistenza dei cicli di mercato possa cambiare la prospettiva con la quale si assumono le principali scelte d’investimento, ovvero la quantità di azioni da mettere in portafoglio e se investire immediatamente o in modo dilazionato. Abbiamo visto come prendere in considerazione l’esistenza dei cicli non aumenta le probabilità di “battere il mercato”, ma consenta di ampliare le possibilità di scelta ed in ultima analisi porta vantaggi non tanto in termini statistici, quanto in termini comportamentali. In altre parole, rende psicologicamente più sostenibile avere una maggiore esposizione alla componente volatile del portafoglio. Nella seconda ed ultima parte di questo articolo vedremo altri modi, più adatti ad investitori molto evoluti, per sfruttare utilmente l’inefficienza valutativa dei mercati.

Alessandro Pedone, responsabile Aduc Tutela del Risparmio

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